A sessant’anni dalla promulgazione dello Statuto, che sanciva l’Autonomia della Sicilia, oggi è largamente maggioritaria, nella storiografia, la tesi secondo la quale le vicende belliche che esclusero il Sud, e quindi la Sicilia, dalla lotta armata antifascista, crearono una dicotomia che ha lasciato pesanti tracce sugli sviluppi dell’Italia nel dopoguerra, aggravando il divario tra Italia settentrionale e Italia meridionale, le cui radici, peraltro, affondavano nei secoli. Per la maggior parte delle forze politiche, risorte dopo la grande tragedia della guerra, le aspirazioni al rinnovamento significarono la costruzione di una moderna democrazia di massa, fondata sui grandi partiti popolari e sulle rinnovate istituzioni democratiche. Invece, nel Mezzogiorno, tali aspirazioni si appuntarono, soprattutto, su problemi antichi e gravissimi, primo fra tutti quello della terra, mentre sarebbero rimasti pressoché ignorati i grandi temi istituzionali e politici.

In Sicilia, invero, le aspirazioni alla costruzione di uno Stato nuovo, nuovo non solo in senso istituzionale ma anche nella sua articolazione geopolitica, decentrata per regioni, si manifestarono sin dai primi segnali del crollo del vecchio Stato sabaudo. Non fu soltanto la risposta locale alla minacciosa emergenza determinata dalla dilagante agitazione separatista ma piuttosto l’esigenza di stabilire un nuovo patto di convivenza con uno Stato non più accentratore, nel quale l’autonomia regionale, estesa a tutte le regioni, fosse garanzia di migliori condizioni di sviluppo, non meno che presidio contro ogni eventuale velleità di ritorni dittatoriali. In quale misura poi il cammino verso l’autonomia siciliana, e più in generale l’ordinamento costituzionale italiano fondato sulle autonomie regionali, sia debitore della cultura del decentramento dei poteri statali propria dei paesi anglofoni, è questione ancora oggetto di studio.

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