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La spugna d`Apelle ha il fascino delle opere prime e a dispetto del silenzio cui ĆØ stata costretta per piĆ¹ di un secolo ancora parla al lettore, non sfigurando affatto nel variegato complesso della narrativa āminoreā del secondo Ottocento siciliano.
Enrico Onufrio, cui non difetta la volontĆ di sperimentare il nuovo e il piacere sconfinato della scrittura, combina in un unico libro racconti di taglio e orientamento diverso: due testi odeporici (La terra dei Feaci, Santa Maura); due bozzetti palermitani (La gastima, Viva la Madonna); un bozzetto siciliano (San Giusto); due racconti scapigliati (I lunedƬ della contessa, Gl`incerti del mestiere), un racconto verista (Marta) e un racconto storico-manzoniano sulla peste di Palermo del 1624 (Santa Rosalia), a sua volta scomponibile in quattro capitoli, assimilabili a quattro racconti.
La raccolta diventa, pertanto, un originale collage delle principali forme narrative del diciannovesimo secolo, rivelando uno scrittore di vaglia – Giovanni Verga lodĆ², per primo, il libro e riconobbe la āstoffa d`artistaā del suo autore – che getta squarci di luce violenta sui molti dolori, sulle poche gioie, sulle tremende vessazioni imposte ai siciliani (antichi e moderni) nonchĆØ ai milanesi (progrediti) da un potere disumano che assume di volta in volta le fattezze del governo assente, di certo cattolicesimo sclerotizzato nei paludamenti tridentini, dell`aristocrazia perbenista, della borghesia affarista.
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